Women Talking: parlare è agire

Ho visto il film Women Talking molto dopo la sua uscita, quando oramai era disponibile sulle piattaforme di streaming, questo perché spesso sento il bisogno di mettere una distanza fra la visione del film e le reazioni immediate su di esso. Quella che sto per scrivere non è una vera e propria recensione del film, ma una riflessione su ciò che ho trovato in esso.

Women Talking, del 2022, è stato scritto e diretto dalla regista S.Polley ed è ispirato al romanzo di Miriam Toews che trae spunto da fatti realmente accaduti in una comunità mennonita in Bolivia nel 2010.

Parto col dire che mi è sembrato di assistere a un’antica opera teatrale: i fatti avvengono in poco più di 24 ore; il film è girato quasi esclusivamente in un solo luogo, le personagge sono tutte vestite in modo sostanzialmente corrispondente.

Questi tre elementi fondanti creano uno spazio che è sovra-parziale e parziale al tempo stesso; dico sovra-parziale e non universale perché la concretezza e la solida e multi sfaccettata umanità delle personagge non aspira a rappresentare tutta l’umanità femminile, ma in questo auto-posizionamento nella parzialità si annida la possibilità del rispecchiamento per chi guarda.

L’aspetto quasi identico, di identità appunto, delle personagge le fa esistere come un ribaltamento delle maschere del teatro antico, quasi a dare nuovo significato a quel tipo di teatro: nel teatro antico le maschere rappresentano la fissità dei personaggi e dei ruoli, soprattutto nella commedia plautina, quasi a suggerire la limitatezza della varietà umana, al tempo stesso con le maschere si cela il volto umano così da rendere indifferenziato, irriconoscibile e disincarnato ciò che si presenta al pubblico: quello che va riconosciuto è il ruolo e la funzione, una manifestazione della pretesa di rappresentazione universale che ha lo scopo di “educare” il pubblico.

Le donne di Women Talking, pur apparendo come maschere a un primo e frettoloso sguardo, si espandono come soggette, prendono corpo tramite la parola, ciascuna con la sua specificità, il suo essere-divergenza.

Anche quando sembra che le parole di una arrivino a toccare la vetta dell’universalità e quindi arrivino a ottenere la capacità di parlare a nome di tutte, un dettaglio, un pensiero oppure, molto concretamente, la voce di un’altra donna riconducono quelle parole alla relatività.

Nel film ho incontrato la messa in scena trasfigurata di un ampio panorama di teorie e pratiche femministe.

Prima di tutto il separatismo e l’autocoscienza: la scena principale si apre con bambine, ragazze, donne e anziane che si incontrano insieme in un luogo al quale gli uomini non possono avere accesso, fatta eccezione per colui al quale viene dato il compito di redigere il verbale essendo le femmine tenute a forza nella condizione di analfabete; è un luogo in cui anche ai figli piccoli, che hanno la facoltà di accedere, è vietato parlare se non col permesso delle donne.

La pratica separatista dell’autocoscienza è ciò che mette le donne in relazione con le altre donne, una pratica che crea legami intergenerazionali, che genera la condizione perché ciò che pensano veramente le donne possa essere detto in libertà, anche facendo emergere e attraversando i conflitti (di conflitti ne avverranno alcuni). Dall’autocoscienza emerge anche la possibilità di operare scelte autenticamente libere, ma solo dopo aver esplicitato tutto ciò che influenza una scelta: paure, speranze, necessità, desideri, emozioni, possibili conseguenze.

Il film riesce a rappresentare quanto sia ingombrante la presenza maschile anche quando il maschio è assente: è catartico poter esplicitare questa incombente presenza immateriale e lo è anche riuscire a toglierle potere. Questa rappresentazione avviene senza retorica, senza momenti didascalici che dicano alla spettatrice “ecco, ora ti ho fatto vedere questo per dirti quest’altro”. Il film si relaziona alla spettatrice in un riconoscimento di piena umanità: la donna pensa da sé, non ha bisogno di lezioni, ha solo bisogno delle condizioni per far emergere il suo pensiero autentico, la sua vera voce. La regista parla alle donne, non a un gruppo di discenti distratte la cui attenzione deve essere sempre sollecitata.

Nel vedere il film ho ritrovato ciò che Lonzi chiama tabula rasa, ma ho anche incontrato la risignificazione del significato del mondo di Daly. So che detta così sembra un avvitamento teorico, quindi provo a raccontare.

Le donne del film sono tenute in condizione di analfabetismo e l’unica forma di conoscenza a loro concessa dagli uomini è quella della Bibbia tramite l’ascolto, non a caso sono costrette a chiedere a un giovane uomo, il reietto della comunità, di redigere il verbale. A fronte di strumenti intellettuali che oggi possono apparire poverissimi e ridotti, l’esperienza delle donne, l’autocoscienza, il confronto permette di trasformare non solo le parole, ma di riempire le parole di quei significati che erano apparsi impropri agli uomini in un’operazione di selezione per giungere alla cosiddetta “definizione corretta di un termine” e “l’univoca interpretazione delle cose”.

Così “perdono”, “salvezza”, “ubbidienza”, “scappare”, “andare via”, “rimanere”, “combattere” e molte altre parole assumono il significato pieno incarnato dell’esperienza della metà relegata nel silenzio.

Non mi sono trovata davanti a trasformazioni discorsive che mirano alla deformazione di significato, ma davanti alla ricerca di pienezza di significato, di pluralità di significato, di materialità.

La regista rappresenta il silenzio, imposto dal sesso maschile, su ogni discorso sul corpo femminile: da un lato le donne che insistono a trovare nomi per descrivere la loro realtà vengono accusate di essere esagerate; dall’altro il film mette in rilievo l’insopprimibilità della materialità dei corpi; non è un caso che questo discorso avvenga proprio intorno alle mestruazioni.

C’è anche un discorso sulla sessualità, su quella sessualità che si trovano a vivere le donne, quel desiderio maschile che si impone e che lascia stordite e senza parole; c’è il senso della vergogna per lo stupro anche quando è chiaro che tutte sappiano e che molte abbiano vissuto.

Le donne del film fanno vuoto (tabula rasa) intorno a loro stesse in uno spazio tutto per loro (separatismo) per far emergere la loro autenticità (autocoscienza) insieme alle altre donne in un gioco di risonanza e differenza fino al momento della scelta (l’azione politica) e in questo processo pongono la loro cultura, il loro significato.

Ciò che mi ha colpita è che “la parola” emerge da tutte, indipendentemente dall’età, quasi a dire che il punto politico e l’azione politica non dipende dalla “verità”, dalla “maturità” e dalla “correttezza” del pensiero ma dall’autentica pluralità delle donne, dal pensiero corale.

Women Talking è una stella preziosa nella galassia dello sguardo femminile che si esprime tramite il cinema.

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