Non voglio per me né l’aridità né la violenza.
Ciò per cui sono infinitamente grata alla pratica dell’autocoscienza è che mi ha permesso di scoprire che esiste un abisso fra violenza e conflitto e quell’abisso è costituito da come io mi situo nelle situazioni non solo in termini di azione ma anche di come io sto con me stessa.
Oggi capisco finalmente, e di questo ringrazio tutte le donne che mi sono state accanto in questo percorso, cosa intendeva Carla Lonzi con “TABULA RASA”.
Ho perso il bisogno di riconoscimento, in favore del desiderio di riconoscimento. Il primo ci porta a cercare in modo compulsivo il riconoscimento indipendentemente dalle persone, dalle situazioni anche quando sappiamo che questo non può avvenire; il bisogno ci rende mendicanti (dipendenti) davanti alle altre e agli altri. Il secondo invece mi permette sempre di agire la prudenza ma anche di trovare la forza. Il desiderio ha bisogno che due o più donne abbiano la stessa “tensione desiderante”, il desiderio mi libera dall’elemosina e mi rende un soggetto capace di agire e mettersi in relazione alle altre senza per questo prostrarmi ma nemmeno senza vedermi come lontana e al di sopra delle altre.
Ho perso ogni certezza culturale, ho imparato a muovermi nel caos. Vorrei davvero essere in grado di trovare le parole per esprimere quanto può essere radicale, potente e liberatorio tutto questo, ma non le trovo.
Ho imparato a riconoscere le aspettative e le pretese implicite che si nascondo in alcune parole, prima fra tutte concreto. Fare qualcosa di concreto per le donne ha sempre significato sacrificio, abnegazione, muoversi verso gli altri in favore degli altri. Mentre agli uomini la concretezza è ed è sempre stata, prima di ogni cosa, egoismo, possibilità di dirsi, pensarsi, agirsi e soprattutto imporsi.
Concreto è il mio sottrarmi, darmi il tempo di pensarmi, di scoprirmi, di incontrare altre in questo percorso. Le azioni politiche vengono dopo, dopo che ho valutato quale “interesse” (come dice Alessandra Bocchetti in “Cosa vuole una donna“) tutela una certa situazione.
L’essere costantemente portata lontana da me, dai miei interessi di persona e soprattutto di donna, mi faceva vivere con molta rabbia, con molto senso di frustrazione, in cerca di giustizia riparativa cieca, in cerca di coccole politiche ed esistenziali. Questo aveva come effetto il cercare di ricevere dalle altre quello che non mi potevano dare; non potevano fare loro quello che non era nelle loro disponibilità. Dover sempre spostare me in favore degli altri significava vivere in assenza di me. Ho scoperto che posso davvero incontrare le altre solo se a quell’incontro arrivo con la mia interezza e dopo aver interrogato me stessa.
E così la rabbia è stata sostituita dal conflitto, eppure la rabbia è sempre alle porte, è un rischio di annientamento di sé costante. Allora prima di uscire, prima di andare in mezzo alle altre (figuriamoci in mezzo agli altri) io oramai ho bisogno di essere centrata su di me, è l’unico modo per proteggere me e per non essere distruttiva con le altre.
Ho imparato a stare nelle contraddizioni e a non farmi influenzare dalla pretesa altrui di coerenza, è proprio quella pretesa che viene da fuori che mi rendeva più incoerente di quanto non lo fossi.
Ho quindi lasciato andare la passività, non sono un “vaso vuoto” da riempire pronto ad accogliere.
Non sono la mia cavità vaginale né il mio utero, la cavità vaginale e l’utero sono a me e sono una parte di me e pretendo che tali rimangano privi di significati simbolici capaci di descrivermi contro la mia volontà e a discapito di chi sono.
Non sono né madre né moglie delle donne e nemmeno sorella, quelli sono i ruoli che il patriarcato ha scelto per me. Chi sono per le altre non ha un nome. E non intendo piegarmi a chi vuole che sia madre delle altre, moglie delle altre e sorella delle altre. Vorrei parole nuove per quella che sono o forse nessuna, così non corro il rischio di incatenarmi da sola e di finire per incatenare le altre nelle mie aspettative.
Lascio nella miseria patriarcale tutte le parole degli uomini che limitano e frenano l’incontro con l’altra: figlia, moglie, sorella, nipote, amante, prostituta, tr*ia ( e tutte le sue declinazioni).
E se proprio voglio prendere parola su quelle parole dico solo che preferisco essere “un’amante della donna” che “una moglie dell’uomo”.
