Sinfonia dell’autenticità: donne al bar

Sono le otto del mattino di un indeciso giorno di maggio e decido di fare colazione al bar di fronte alla scuola elementare di uno dei miei figli; il bar ha un ampio, spazioso e verdeggiante dehor con una ventina di tavoli intramezzati da fioriere così da rendere accogliente e non dispersivo l’ambiente. Ho portato con me un libro con l’intenzione di leggerlo e nella speranza di non essere disturbata da conversazioni che in questo momento non desidero, sono una di quelle donne che ama la colazione in solitudine e tendenzialmente silenziosa. Trascorro un quarto d’ora assorta nella lettura poi una delle cameriere richiama la mia attenzione mentre libera i tavoli dai resti delle colazioni di chi se ne è andato e, proprio in quel momento, mi rendo conto che gli uomini sono quasi tutti scomparsi e che ai tavoli siedono gruppi di donne. Siedono a gruppi di tre o quattro per lo più; donne fra i trentacinque e i cinquant’anni più o meno.

Resto rapita da quello che ho davanti agli occhi quasi fossi in un teatro in platea seduta nella fila proprio a ridosso del palco. Vorrei avere l’abilità di Artemisia Gentileschi per ritrarle tutte, tanto è lo sconvolgimento profondo di bellezza che queste donne, tutte insieme, mi portano. Sono così belle le donne quando sono autenticamente vive. A un tavolo di tre una donna dona a un’altra gesti teneri e affettuosi stando reclinata in avanti sulla poltroncina di brunito metallo forato e tenendo teso ma leggero un braccio verso l’altra: la accarezza e la avvolge con lo sguardo morbido e un sorriso che si scioglie sul volto come una glassa densa e deliziosa su una torta. Ricomincio a guardarmi intorno per osservare le altre donne agli altri tavoli. Scatti laterali di teste fanno spostare chiome e guardando tutto l’insieme sembra che le teste di donne danzino insieme ai loro capelli; colli si allungano tesi e decisi per lanciare in aria nuvole di fumo di sigaretta; alcune labbra si arricciano in segno di dubbio e disapprovazione. Una donna è altrove mentre sorseggia il caffè; sembra una statua meccanizzata, ha i capelli vaporosi, leggermente crespi e color miele di castagno e ricordano un campo di grano d’estate nelle ultime ore di luce. Proprio davanti a lei, seduta con altre due amiche, c’è una donna sulla cinquantina dagli occhi imperiosi, grandi e color nocciola; c’è quiete e regalità nel suo abitare lo spazio e penso che dovrebbe portare in testa una corona e tutte noi astanti dovremmo renderle omaggio.

Ed ecco che il mio sguardo viene attraversato da una madre sulla trentina che porta in braccio la figlia di cinque o sei anni con la testa reclinata mollemente sulla spalla della donna, quella bambina non peserà meno quindici chili e lei li sta portando con premura fino all’auto parcheggiata.

Le mani delle donne tendono a volteggiare nell’area delimitata dalle spalle come se una gabbia le tenesse dentro un cubo reticolato che parte dalla testa dell’omero. Cosa accadrebbe se si ampliasse lo spazio in cui far muovere le mani? Non ho il tempo di finire questo pensiero che fa il suo ingresso una donna sulla sedia a rotelle di un’età indefinita fra i cinquanta e i settant’anni, dalla pelle sottile e una felpa blu acciaio; le sue braccia sono rivolte verso l’interno in una posizione rigida e tortuosa, ricordano due rami di vite che si avvolgono su loro stessi e la donna sembra come dentro una crisalide trasparente; ha la testa legnosamente reclinata su un lato; vorrei chiederle com’è vedere le altre persone dal suo punto di vista, perché penso che ci sia una diversa prospettiva dei corpi da quell’angolatura; vorrei ascoltare la sua verità. Alcuni tavoli si svuotano mentre si accingono a sedersi una madre e una figlia, la prima vecchia e la seconda alla fine della sua mezz’età; la madre si siede composta in attesa della figlia che si dirige a ordinare per entrambe. Questa visione mi causa una fitta al cuore perché penso che non vivrò mai una situazione così e provo dolore nel pensare che comunque sarebbe stato orribile se non fosse sopraggiunta la morte di mia madre a rendere impossibile questo scenario; so che in qualche punto della colazione lei avrebbe iniziato ad essere sgradevoltmente giudicante e sadica.

Sul palcoscenico compaiono due donne di almeno ottant’anni. Sono amiche? Hanno un passo deciso ostacolato solamente dagli effetti del tempo sui loro corpi. Una è vestita con diverse tonalità di beige e tortora sulle quali spicca una soffice sciarpa color aragosta tenue; l’altra ha scelto una camicia viola scuro e una giacca lilla. Quello che invidiamo alle donne vecchie è la libertà ma siamo spaventate dal prezzo di non essere più desiderabili dall’onnipervasivo sguardo maschile? Essere al centro come oggetto sessuale per l’uomo, anche quando non ci sono uomini, è una centralità così stordente da farci dimenticare di essere oggetti. Gli uomini stanno al centro come soggetto, le donne come oggetto; forse è questa l’essenza profonda della complementarietà costruita. Una delle due ottantenni si dirige verso l’interno del bar per ordinare e mi rendo conto che la presenza di queste due amiche è densa e la loro complicità così evidente che vorrei tanto sedermi con loro.

Si presentano al dehor due novantenni, una delle due sembra la signora sulla sedia a rotelle a uno stadio iniziale; la vecchiaia mi sembra un viaggio a ritroso dalla donna voluta dal mondo verso la donna che realmente si è. Le donne dovrebbero immediatamente rinascere corredate di memoria subito dopo la morte. Le due novantenni prendono il posto della figlia di mezz’età e della vecchia madre: è un passaggio di tavolo gentile e premuroso con uno scambio di parole fra quelle che se ne vanno e quelle che arrivano. Sento dire alla figlia “buona colazione”. Mi sembra di osservare il film dell’età della vita, una sorta di Racconto di Natale in pieno giorno: il fantasma del passato, quello del presente e quello del futuro. Fra me e le due novantenni c’è un tavolo vuoto che viene riempito da altre due donne sulla settantina e nel guardare questo cambio di età delle personagge ai tavoli mi accorgo che i movimenti delle mani superano l’area delimitata dalle teste di omero. Mi guardo intorno e mi rendo conto che se prima le occupanti erano semplicemente vive, le nuove arrivate di tutti i tavoli sono fiere, decise, libere di essere felici. “Lo faccio per me stessa” in questo spazio è una frase seria e vera. “Vestirmi?”, “Lo faccio per me stessa”. “Andare al bar?” , “Lo faccio per me stessa” e forse nonostante “me stessa” e “la mia età”. Il loro essere qui è per loro stesse.

E’ il momento di andare e capisco perché gli uomini vogliono essere circondati da donne giovani e perfettamente coerenti con gli standard che hanno stabilito: non si sentono minacciati e anzi sono circondati da una visione confortante, suadente di donne in gruppo.

Le donne vecchie che ho davanti “sono per loro stesse” e non per quell’invisibile sguardo maschile che ci accompagna sempre e che risiede anche negli occhi delle altre donne.

Forse dovremmo invecchiare a dieci anni e ringiovanire a sessanta?

Vivian Maier – 1955

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