Un nome unico può ricordarci che possiamo osare e andare oltre i confini delle parole che la cultura ci ha imposto.
A metà degli anni 90 incontrai al mare una bambina poco più piccola di me; io avevo dodici anni e lei fra gli otto e i nove; allora quella differenza sembrava un abisso e mi relazionavo a lei come si fa con le più piccole quando sei ancora una fucina di divenire. Era una bambina dai lineamenti spigolosi e armoniosi, con un carattere spumeggiante che, come molte di noi, iniziava a confliggere e stridere con le pretese imposte al nostro sesso. Scrivo di lei perché mi è tornata nuovamente alla mente in questi giorni. Questo è accaduto dopo aver letto tanti, troppi, commenti sulla sentenza che ha confermato la dicitura “genitore” sui documenti d’identità delle persone minorenni. Come oramai mi accade frequentemente, mi sono ritrovata in uno stare lontano dalle varie posizioni che convergono verso la polarizzazione. Questo posizionamento mi fa avvertire della scomodità. C’è chi festeggia, giustamente secondo me, per una sentenza che cerca di andare oltre quel concetto di famiglia che è stato imposto come modello unico nel corso dei millenni nel nostro paese (e non solo) e che può essere posto sotto la dicitura famiglia eterosessuale: una formazione relazionale umana che è stata resa istituzione e al tempo stesso norma sociale, psichica, immaginativa, giuridica e che ha schiacciato porzioni di umanità, imponendo comportamenti e comminando punizioni in senso molto ampio. C’è anche chi dice di fare attenzione, presa da una ragionevole preoccupazione, per gli effetti di sponda tutt’altro che irrilevanti. La sentenza infatti riconferma un maschile che assurge a neutro e impone una fittizia equiparazione fra condizioni umane che equiparabili non sono quando si tratta di dare riconoscimento istituzionale a chi-genera e chi-non-genera, anche se ad essere oneste la questione è posta in modo abbastanza sbrigativo ponendo la difesa accorata della parola “madre”. Ci sono anche quelle persone che si strappano le vesti per la messa in pericolo de “La-Famiglia”, alle quali basta presentare una semplice replica: – meno male -.
Immergermi in questa ennesima questione politica mi ha portata a scrivere molto, presa dall’urgenza di non farmi subissare dalle parole che leggevo, in cerca di un punto di fuga che mi permettesse di stare nella pienezza del mio punto di vista. In un certo senso queste due sintesi politiche (che sono sintesi) mi sono estranee perché da un lato chi festeggia finisce col suggerirmi che debba essere accettabile e accettata (da me) la rinuncia e la finzione di non essere io una specificità e provenire a mia volta da una specificità (provengo letteralmente da chi-genera), dall’altro non riesco più a stare con autenticità e pienezza nelle parole datemi dall’Uomo e madre è una di queste parole. Tutto questo scrivere mi ha condotta, ancora una volta, nel campo delle parole poiché esso è il campo in cui l’umanità si dispiega, esiste; siamo essere-di-parole e lo siamo
perché la condizione umana è una condizione di relazione, iniziamo in una relazione e la nostra fine è la fine delle relazioni.
Senza relazione non sono sicura che avremmo questo specifico modo di comunicare che abbiamo chiamato lingua/linguaggio. Genitrice, genitore, madre, padre, sono parole politiche, sono capaci di definire e ridefinire il potere e il mondo umano. Qui non scriverò cosa penso sulla questione però desidero dire che il femminismo/i femminismi attualmente e nel suo/loro complesso non sembrano essere in grado di osare.
Osare l’impossibile, dissolvere i confini, desiderare, generare utopia (che è il desiderio del possibile, ciò che non è ma potrebbe essere), posizionarsi altrove dal già dato.
E se qualcuna ravvede una critica in queste parole, posso dire che non lo è. Provo a parlare e scrivere come una donna innamorata parla alla sua amata quando sente che c’è qualcosa che non va, o forse parlo come quando io sono innamorata e cerco di dire alla mia amata che c’è qualcosa che non va: sto male, ho bisogno di parlare, cerco di trovare le parole per esprimermi e al tempo stesso non ferire. Insomma questa non è una critica e non mi metto al di fuori del femminismo come se avessi la possibilità di chiamarmi fuori, sono una donna innamorata, perdutamente innamorata di una storia di liberazione e trasformazione che serpeggia da secoli (i serpenti sono i miei animali preferiti, quindi serpeggiare è un’immagine bellissima).
So di avere scritto una premessa lunghissima, ma come le innamorate di lungo corso, come in tutte le relazioni che durano da anni, ho già nella testa alcune delle obiezioni e degli appunti che mi possono essere fatti.
Tornando alla storia principale, dicevo che erano gli anni 90, era estate e incontrai una bambina indimenticabile. Perché indimenticabile? Il suo nome: STASTUA. Sì. S,T,A,S,T,U,A. Non “statua” come mi ha suggerito il motore di ricerca quando ho provato a cercarla. Forse cercavi Statua? No, Cercavo proprio Stastua.
La madre aveva scelto per lei un nome mai esistito, un nome tutto per quella bambina. Ricordo ancora molte delle situazioni legate al suo nome: stupore diffuso, domande curiose e commenti in assenza delle interessate (nominante e nominata). Nella mia mente di dodicenne finii con l’aderire al sentire comune. Oggi non saprei dire a quale aspetto del sentire comune aderii però la sensazione che si radicò in me è che ci fosse qualcosa di strambo e di sbagliato. C’era chi ripeteva, in assenza delle interessate, il nome della bambina con fare di scherno enfatizzando le due S e la S è una lettera che già spezza le parole. Ricordo ciò che veniva detto intorno a quel nome: manie di protagonismo, eccentricità, squilibrio, megalomania, egoismo un po’ narciso erano grossomodo il senso delle parole indirizzate alla nominante; pena, pietà e una compassione negativa erano le parole riservate alla nominata.
Sembrava che ci fosse qualcosa di scandaloso e indecente nell’aver osato chiamare la propria figlia con un nome autenticamente nuovo.
Solo oggi, grazie al femminismo, ho trasformato la mia adesione al sentire comune in ammirazione. Oggi posso riconoscere la grande fortuna che è stata poter incontrare quelle due persone perché oggi quella bambina (che oramai ha quasi quarant’anni), quella madre e quel nome sono ispirazione, speranza, sono un simbolo che porto con me e che mi ricorda che moltissime cose sono possibili.
Stastua è nata libera e ha ricevuto un nome libero da tutte le tradizioni. Nessuna santa, regina, principessa, parente, antenata, martire, figura mitologica, rivoluzionaria socialista, fiore, animale, astro, satellite o pianeta a pendere sul suo destino. Il suo nome è solo suo e lei è la prima Stastua. Quel nome unico collima con l’unicità che ogni persona è. La madre ha osato e penso che lo abbia fatto consapevole di tutte le conseguenze, compreso il possibile astio della figlia per un nome che inevitabilmente le avrebbe complicato la vita in un mondo in cui osare, altrove e invenzione sembrano degli oltraggi. Ricordo ancora la dolcezza e l’orgoglio con cui la madre spiegava la scelta di quel nome: un nome tutto per la figlia. Stastua deve aver passato le forche caudine per quel nome, a tratti forse lo avrà odiato, ma non lo ha cambiato. Forse a un certo punto ha riconosciuto lo spazio di libertà che quel nome le dava, lei nata con quel corpo su cui per millenni si sono abbattute norme e parole.
Quando penso a lei, alla madre, a quel coraggio, a quell’osare, a quella iniziale condizione di libertà di partenza, mi viene voglia di dire che io non sono una donna, sono una Stastua, perché in quel nome mi sembra di poterci mettere tutta me stessa.
