La riflessione che segue nasce dall’aver partecipato all’incontro di redazione aperta della rivista ViaDogana3 della Libreria delle donne di Milano tenutosi il 10 marzo 2024. La focalizzazione dell’incontro consisteva ne “La scommessa del partire da sé”.
Fra le cose che ho più sofferto durante l’infanzia e l’adolescenza fino ai primi anni dell’età adulta c’è sicuramente la richiesta di non disturbare con la mia presenza verbale. Essa è arrivata in varie forme e modi: mia madre (insieme a mia nonna e le mie zie) mi riconduceva al silenzio che con imperio e fermezza; mio padre, le volte in cui trovava che avessi parlato un po’ troppo, mi richiamava alla massima “dio ci ha dato due orecchie,ma soltanto una bocca,proprio per ascoltare il doppio e parlare la metà”; più in generale mi sentivo richiamata all’autosorveglianza della mia bocca tramite le lodi delle persone adulte per quelle bambine e quelle ragazze capaci di tacere per ore senza esporsi e capaci di farsi semplici ripetitori dei pensieri altrui. Mi rendevo conto che la richiesta che mi veniva indirizzata era quella di esserci senza arrecare disturbo e il disturbo era parlare. Nell’infanzia questa era una condizione che condividevo con i miei coetanei maschi, ma dalla pubertà in poi questa richiesta è passata dall’essere una richiesta generale a essere una richiesta sessuata. I miei coetanei maschi di 17, 20 o 25 anni potevano anche spargere granitiche sciocchezze e trovavano sempre orecchie indulgenti ad ascoltare, come se in quelle sciocchezze ci fosse insita la possibilità di diventare poi opinioni salde e fondate, mentre io mi ritrovavo a dover argomentare le mie posizioni come se fossi sempre davanti a una commissione di laurea ostile.
A questo si aggiunge che la presenza muta e ammiccante delle donne era ciò che vedevo rappresentato in televisione durante la mia adolescenza a cavallo fra la seconda metà degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila.
Eppure, se ripenso alle volte in cui sono partita da me in quella fase della vita, mi rendo conto che era semplicemente un senso di non coincidenza con ciò che veniva detto, soprattutto se ciò che mi veniva presentato assumeva la forma di assolutizzazione ontologica: frasi come “è nella natura umana fare così”, “le ragazze fanno cosà”, “noi donne siamo così” mi facevano venire una voglia irrefrenabile di rispondere “parla per te”. Solo a diciotto anni trovai nelle parole di Arendt sulla condizione umana l’idea che la natura umana non esiste.
Per mia fortuna ammetto di aver manifestato fin da piccola una tendenza alla ribellione soprattutto alle norme de “la brava bambina” e quindi ho spesso preso parola contro il parere di molti. “Ma chi ti porta?” è nella sostanza del messaggio ciò che mi sono sentita ripetere con non poca frequenza. Ero troppo piccola e insicura per difendere con argomentazioni quello che per me era uno slancio istintuale, quasi che le parole fossero capaci di varcare la soglia della mia bocca da sole; perché avessi quello slancio non lo sapevo, sentivo che ero nel giusto nel prendere parola quando ci si aspettava che tacessi ma vivevo con grande frustrazione i rimproveri. Nella relazione con le coetanee, soprattutto durante l’adolescenza, le cose non sono andate meglio, perché l’inappropriatezza della parola sembrava essere un valore condiviso da quasi tutte, quasi che fosse naturale tacere anche quando ciò che si ascolta non coincide con la propria esperienza; le ragazze parlavano a bassa voce, a conversazioni “pubbliche” finite, come se le parole di una ragazza dovessero arrivare in momenti più domestici e a scoppio ritardato.
Tramite questa esperienza sono arrivata all’età adulta con la convinzione che nel tacere, che non è silenzio ma silenziamento, non c’è relazione, non c’è gioco. Anche nell’attivismo politico, che ho iniziato quando avevo quattordici anni, sembrava che il silenzio e l’ascolto fosse una cosa soprattutto richiesta alle ragazze e alle donne, salvo poi non essere prese in considerazione proprio perché non si erano mai espresse o non avevano mai espresso una posizione propria ma si fossero limitate a esporre quelle già sentite da altri. Ricordo ancora quando a ventisei anni, in occasione di una scuola di politica, vidi uno dei rappresentanti nazionali di un partito di sinistra canzonare con sussiego e paternalismo alcune giovani donne dicendo loro che avevano il dovere di affrancarsi dai maschi di riferimento nel partito ed esporre posizioni proprie; quello stesso rappresentante si rivolse a me stizzito perché la mia presa di parola la riteneva abitata da toni aggressivi e che avrei dovuto dire le cose in un altro modo.
Il femminismo ha cambiato tutto e quel partire da sé è stato nominato per quel che era: sapere, conoscenza, relazione. Mi sono riconosciuta nelle parole di Angela Putino e la sua cortesia della divisione: partire da me non consiste nel rifiuto di accogliere l’altra, né di imporre il proprio punto di vista; partire da me è chiarezza tanto quanto lo è il “partire da sé” delle altre. Nelle riflessioni di Putino ho trovato il completamento di ciò che in Arendt era declinato al neutro (maschile), un punto di vista che risuonava nel mio: partendo da me e mettendomi in una relazione di divergenza, tenendo insieme sia legami di sorellanza sia di amicizia, agendo la polemica, posso iniziare un processo capace di modificare il mondo che è lo spazio che emerge fra le persone-donne e quindi fra le persone tutte.
Durante l’incontro è stato sottolineato come oggi vi sia un fenomeno di sovra-manifestazione del partire da sé, collegato soprattutto ai social network. Questo eccesso di sé-dicenti è però un fenomeno teatrale nato più di 25 anni fa. Le prime edizioni de “Il Grande Fratello” si imposero nella quotidianità delle persone; le riprese ne “il confessionale” facevano sì le lo sguardo pubblico si focalizzasse sulla presa di parola personale, una parola artatamente rubata per moltiplicare i profitti della Endemol. Io, sedicenne, ero fra quel pubblico ovviamente.
Oggi le videocamere fintamente nascoste non sono più solo quelle de “La Casa”, sono quelle dei telefoni e il programma non è più televisivo ma è lo spazio di relazione delle generazioni nate dopo il 2000.
Questo compulsivo partire da sé, di cui i social e i format televisivi sembrano traboccare, è però una falsa pratica.
Quando il partire da sé è regolato da algoritmi generati per garantire profitti la parola d’ordine non è autenticità bensì illusione di autenticità; quel partire da sé è inganno (a volte persino autoinganno) e strategia. Il partire da sé oggi è massivamente asservito al consenso, alla ricompensa in follower e, infine, alla remunerazione; è business non politica, parola che genera profitto. E’ qualcosa di radicalmente distante dalla cortesia della divisione individuata da Putino, oserei dire persino il suo opposto. L’aggancio col profitto richiede che quella parola sia qualcosa di prodotto in serie, un generatore di falsi conflitti che lavorano per la fortificazione del sistema e delle sue premesse simboliche. Dalla teatralità artefatta di questa falsa spontaneità – i contenuti spesso vengono elaborati e progettati per ore – emergono desideri, aspirazioni monolitiche, identiche e acquistabili che si impongono massivamente in ogni angolo del pianeta. La parola è il veicolo delle identità, cioè di ciò che non diverge ma centuplica pedissequamente.
In questo contesto la pratica autentica del partire da sé, dalla quale emerge una soggettività semiotico-polica in relazione (io la chiamo persona-donna), è ancora una pratica capace di creare spiragli dai quali fare passare non solo l’autentica autenticità ma anche di tramare relazioni di resistenza, di iniziare processi che cambiano la civiltà.

Grazie ancora per la missione che compi. Un’altra analisi accurata, che condivido a pieno.
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