Circa una decina di anni fa comprai due libri dal titolo graffiante, il primo scritto da una bambina yemenita di poco più di 10 anni e il secondo da una giornalista sudanese. Allora, facevo parte della schiera di persone che trovavano neutro che le donne musulmane rivendicassero l’utilizzo dell’hijab. Dirò di più: nel mio vecchio blog scrissi un pezzo in cui puntavo il dito contro una cultura occidentale ipocrita in grado da un lato di tollerare la rappresentazione del chador indossato da Maria di Nazareth (la Madonna) e dall’altro di richiedere (come in Francia) il divieto di simboli religioni, anche indossati, nelle scuole.
Ma torniamo ai libri

Nojoud Ali è stata la persona divorziata più giovane al mondo, yemenita, viene costretta all’età di 9 anni ad un matrimonio forzato con un uomo di trent’anni a causa della povertà della famiglia. E’ riuscita poi a scappare dalle grinfie del marito violento e stupratore e a ottenere prima rifugio e poi il divorzio, a seguito del quale vola in Europa e scrive la sua autobiografia grazie ad una giornalista franco-iraniana. Il suo libro è crudo e spietato, di una limpidezza come solo il racconto di una bambina cui è stata tolta l’infanzia può essere (lo scrive ad 11 anni).
Ho faticato a leggerlo, mi lasciava col fiato spezzato ad ogni pagina.
E’ importante ricordare che nello Yemen è in vigore una legge contraddittoria che da un lato fissa a 15 anni l’età minima per il matrimonio, dall’altro, rifacendosi alla vita del profeta islamico, consente la stipula del contratto matrimoniale già dai 9 anni, a patto che non si consumi sessualmente il matrimonio fino alla comparsa del menarca (divieto che viene violato).
Lo Yemen è uno stato confessionale in cui l’Islam è religione di Stato e viene applicata la shari’a, pertanto legge e religione sono un tutt’uno.

Il secondo libro è invece un’autobiografia di una giornalista sudanese, Lubna Ahmad Al-Hussein, che racconta la condizione delle donne in Sudan. Questo libro prende origine della pena che viene comminata alle donne se osano avere comportamenti licenziosi e scandalosi: una pena cui è stata condannata l’autrice, il cui atto scandaloso è l’aver indossato dei pantaloni. La pena consiste in 40 frustate dopo un processo sommario durante il quale la donna non può sostanzialmente difendere
– La mia storia non è la mia storia […] la mia storia è quella delle centinaia, migliaia di donne che vengono frustate ogni giorno, ogni mese, ogni anno dopo un processo sommario [….]donne che subiscono la pena in silenzio. Se ne vanno condannate a morte, alla morte sociale, marchiate da una vergogna che le accompagnerà fino alla fine dei loro giorni –
Come per lo Yemen anche in Sudan vige la shari’a; è un paese in cui l’infibulazione (l’escissione della clitoride e la mutilazione dei genitali) riguarda il 90% della popolazione di sesso femminile fra i 14 e i 49 anni. E’ importante ricordare che l’infibulazione avviene spesso prima della comparsa del menarca.
L’autrice ripercorre la sua vita e spiega come sia possibile che le donne vengano oppresse, perseguitate, torturate e violentate col benestare dello Stato e nella totale accettazione sociale: dall’infibulazione, all’istruzione confessionale, alle restrizioni sempre più feroci nei confronti delle donne fino alle limitazioni della libertà basilari per le donne adulte.
Lubna Ahmad Al-Hussein oggi vive in Europa dopo essere fuggita per le concrete e reali minacce di morte fattele dopo che lei ha potuto rendere il suo processo per aver indossato dei pantaloni un fatto di rilevanza internazionale. Ha scritto un secondo libro (che sto leggendo) in cui racconta come grazie ad una manipolazione sistematica della dottrina islamica sia possibile trasmettere l’integralismo non solo negli stati confessionali ma anche negli stati occidentali. L’autrice denuncia una diffusione endemica della denigrazione e sottomissione della donna su base religiosa nella quasi totale indifferenza generale.
L’ultima è un’avvocata iraniana, tutt’ora in carcere con una condanna a 33 anni di prigione e 148 frustate: Nasrin Sotoudeh (fonte Amnesty)

Nasrin Sotoudeh, ha assunto nel tempo la difesa di Shaparak Shajarizadeh e di altre donne che avevano protestato contro l’obbligo d’indossare lo hijab, è stata arrestata il 13 giugno 2018. La causa dell’arresto e della sua condanna è proprio la sua attività in difesa delle donne e dei diritti umani.
Nella sentenza si leggono, tra le altre assurde accuse, l’“incitamento alla corruzione e alla prostituzione” e la “commissione di un atto peccaminoso (…) essendo apparsa in pubblico senza il velo”.
La lettura di queste vite, di questi e altri libri, articoli, approfondimenti nel tempo mi hanno costretta a rendermi conto di essere troppo concentrata sul risultare io accogliente, di essere più preoccupata dell’accusa di razzismo o islamofobia. Mi sono resa conto che “non si possono servire due padroni” o meglio non si possono sostenere due cause che si scontrano l’una con l’altra.
Così ho scelto di stare dalla parte delle donne che nel mondo, compresa l’Europa, combattono contro la manipolazione e il lavaggio del cervello (ma potremmo banalmente chiamarla educazione) imposto alle donne fin da quando sono bambine affinché accettino e trovino normale quella che è una costante compressione delle loro vite anche in Occidente (come racconta Lubna Ahmad Al-Hussein nel suo nuovo libro Maledetta)
Queste donne sono ancora musulmane e come tante donne, del passato e del presente, hanno deciso di sfidare il patriarcato religioso, di squarciare il velo di ipocrisia e indifferenza. Come femministe penso sia nostro dovere sostenerle e decidere una volta per tutte da che parte stare, anche se questa parte è scomoda, impopolare, rischia di farci additare come islamofobe.
Ma dopo tutto essere femminista non è mai stata una comoda poltrona e dobbiamo rendere giustizia a tutte le donne che vengono incarcerate, condannate, frustate o semplicemente confinate nelle case e ad una vita di inferiorizzazione dal patriarcato (qualunque origine e forma il patriarcato assuma).
Il silenzio e la neutralità sono connivenza.
N.B. Nel 2020 il Sudan ha formalmente messo al bando l’infibulazione, questo però è SOLO l’inizio del percorso, infatti per fermare tale pratica non è pensabile che basti una legge; ci vuole un cambio culturale che non è pensabile sia immediato proprio perché fortemente radicato anche nella religione.
Vi lascio il titolo del secondo libro della Al-Hussein
