La parola troia toglie la soggettività alla ragazza e alla donna; non è più lei: è il desiderio violento, un corpo messo a servizio del desiderio violento degli uomini. E’ quella a disposizione di ogni pulsione maschile: è l’oggetto, lo strumento di sfogo; perde il valore di oggetto di possesso esclusivo. E’ la donna di tutti.
La parola troia nasconde un desiderio avido e feroce; è colei che non può nemmeno chiedere le briciole di dignità che le provengono dall’essersi messa a servizio della progenie maschile.
La sua progenie è bastarda, infamata come chi la partorisce.
La troia proietta la sua infamia su chiunque le stia attorno; getta discredito e dubbio sulla sua famiglia e sulle persone che la amano o le vogliono bene: riceve lo scherno e il dileggio tenendo gli occhi rivolti verso il basso per la vergogna con l’obbligo di pentirsi di una veste pubblica che non si è scelta.

Gli uomini davanti a lei hanno l’imperativo dell’uso e del consumo, devono agire secondo le regole per non apparire deboli o degli scemi completi che si fanno sfuggire l’opportunità di banchettare di lei estirpandole brandelli di umanità e decenza.
Il desiderio degli uomini, davanti a colei che è ritenuta troia, è quello delle iene che si spartiscono il cadavere già martoriato e smembrato.
E dopo aver messo in atto questo rituale necrofago comune che gli uomini tornano dai loro simili a narrare di come hanno ulteriormente infierito su un cadavere riconosciuto da tutti tale.
La parola troia è il disprezzo degli uomini per la nostra integrità, la nostra vita e la nostra autonomia.
Per questo ne hanno fatto un mestiere, oltre ad una etichetta infamante: per poter rivivere a pagamento l’uccisione simbolica, la ferocia, la conquista e la violenza sull’inerme.
P.S.
Ne hanno fatto un mestiere che oggi dovremmo rivendicare come alta espressione della nostra indipendenza, libertà e autodeterminazione.