Burn out: lo stress cronico che provano molte donne

Nei post precedenti ho parlato di come la condizione di vita delle donne consista in un destreggiarsi tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito, carico mentale e una riduzione drammatica del tempo libero a disposizione.

Per le donne, già da ragazzine (11 anni), si registra un divario con i loro coetanei in relazione al lavoro domestico: le ragazze fra i 15 e i 24 anni impiegano più del 6% della loro giornata nel lavoro familiare, contro il 2,3% dei loro coetanei di sesso maschile.

Questo significa che già da piccolissime veniamo letteralmente addestrate a occuparci degli altri e a comprimere le nostre esigenze, a dare minor valore al nostro tempo libero e ad accettare di avere meno tempo libero a disposizione.

Nell’età adulta, però, questo mix di responsabilità porta le donne a vivere in una condizione di stress cronico: il cosiddetto burn out.

Il burnout, o la sindrome da burnout, che in senso letterale significa “bruciato, fuso, esaurito”, è uno stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale che deriva da una risposta prolungata e intensa allo stress da lavoro: le donne colpite da burn out sentono le loro energie letteralmente prosciugate dal carico di obblighi e compiti da svolgere.

Nelle brevi ricerche che ho fatto per scrivere questa riflessione ho trovato interessanti alcune cose.

Fra i fattori di rischio interni, quindi diciamo quei rischi che ci rendono predisposte a sviluppare il burnout, troviamo:

  • Impegno esagerato
  • Elevate pretese da sé stessi
  • Alto grado di idealismo
  • Perfezionismo
  • Aspettative eccessive
  • Dubbi sul senso del proprio operato
  • Difficoltà a dire di «no»

Sostanzialmente l’intero impianto educativo con cui vengono cresciute le ragazze è di per sé stesso un rendere le future donne soggette allo stress cronico. Fin da piccole veniamo cresciute, indirizzate ed elogiate se facciamo “le cose per bene”, se siamo composte, ordinate, silenziose, precise. A scuola i nostri quaderni sono presi d’esempio perché metodiche. A questo si aggiunge il fatto che veniamo cresciute a ritenere di dover essere umili, non esagerate, a “fare le brave” (una frase che nasconde l’inferno), a non essere giudicanti e al contempo ad ascoltare i giudizi altrui (soprattutto quelli dell’intero sesso maschile).

Se ripenso a film Disney come La Bella Addormentata, Aladdin ma anche pellicole più recenti come La Principessa e il Ranocchio mi rendo conto di essere stata educata al fatto che il mio “NO” venga trasformato in un sì: Aurora infrange il divieto di parlare con estranei per il principe Filippo; Jasmine, che non intendeva sposarsi per alcun motivo, torna a più “miti consigli” innamorandosi di Aladdin; Tiana si ritrova nei pasticci per aver accettato di aiutare quello spiantato nullafacente del principe Naveen (spiantato nullafacente che poi sposerà).

Fra i fattori di rischio esterni del burnout invece ci sono:

  • Sovraccarico di lavoro
  • Mancato riconoscimento
  • Mobbing
  • Ingiustizia
  • Scarso controllo sulle proprie mansioni

Sappiamo che le donne impiegano 3 ore al giorno solo per il lavoro domestico, contro i 57 minuti degli uomini, alle quali si aggiungono le quasi 2 ore dei compiti di cura quando si hanno figli, alle quali si aggiungono le ore di lavoro retribuito. Direi che il sovraccarico c’è tutto.

Ma c’è un altro fattore. Se la società è ancora permeata profondamente dagli stereotipi di genere al punto tale da creare un divario nel lavoro domestico già a 15 anni, è più che ovvio che ci sia un costante mancato riconoscimento: le donne fanno quello che le donne devono fare, quindi nessuno deve dire loro grazie o riconoscere alcunché.

Ma cosa comporta il burnout?

A livello fisico:

disturbi della pelle, intestinali, gastrici, inappetenza o alimentazione disordinata, insonnia, stanchezza generalizzata, tensione muscolare, cefalea

A livello psichico: 

perdita di fiducia nelle proprie capacità, distacco, disinteresse e insoddisfazione, senso di impotenza, di frustrazione, fallimento, perdita di interesse, isolamento, chiusura, ansia, attacchi di panico, note depressive, declino delle prestazioni lavorative, riduzione dell’efficienza del proprio lavoro.

Sono fortemente convinta che la stragrande maggioranza di tutte noi abbiamo provato, proviamo o conosciamo donne che manifestano questi sintomi.

In sostanza fin da piccole veniamo cresciute, educate, addestrate a sopportare in silenzio un carico di lavoro molto maggiore, che cresce con l’avanzare dell’età, in una società che non riconosce tutto questo e che ci espone a un malessere costante salvo poi impedirci di ribellarci perché “questa è roba da donne” e quindi ce la fanno passare come cosa del tutto naturale.

Il Patriarcato continua ad opprimerci ma ci impedisce di riconoscere la nostra oppressione, anzi porta molte di noi a dire di non essere oppresse mentre lo siamo eccome.

Al tempo stesso il sistema patriarcale sta riuscendo da un lato a delegittimare le femministe che parlano di oppressione, mentre finanzia, sostiene e porta avanti un post-femminismo che nega l’oppressione e che anzi chiede alle donne “di prendersi cura di altre esigenze per essere inclusive”.

Bella fregatura insomma.

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