Ero una “brava ragazza”? Ero una “coi grilli per la testa”? Ero “problematica”? Cosa pensano di me le altre persone?
Fin da quando ero bambina per me è stato sempre molto chiaro il fatto di essere costantemente sottoposta al giudizio altrui e che i parametri per giudicarmi non erano affatto uguali a quelli utilizzati per giudicare i miei coetanei maschi. Questi parametri differenti non riguardavano solo me ma tutte le persone di sesso femminile di qualsiasi età.
Credo che questa sensazione di essere costantemente sotto la lente di ingrandimento non sia stata solo mia, anzi direi che tutte le bambine, le ragazze e le donne con cui mi sono relazionata soffrivano come me per questa spada di Damocle costantemente sulla testa.
Ora che ci penso forse, più che sofferenza, è proprio senso di precarietà legata alla nostra immagine sociale: è come dover attraversare un fiume poggiandosi su sassi disseminati che si spostano, cambiano forma o addirittura spariscono mentre ascoltiamo una voce fuori campo che ci dice dove dobbiamo andare, dove dobbiamo mettere il piede, ma lo fa cambiando idea e dando indicazioni in contraddizione.

Una condizione che non sembra minimamente cambiata nel corso del tempo, nonostante la maggiore libertà di azione e la maggiore e apparente libertà sessuale. Sembra una banalità, eppure il giudizio sociale ha ancora un peso enorme nella vita di una donna e in un certo senso gli effetti del giudizio sociale (la reputazione) si sono amplificati a dismisura con l’arrivo dei social. Nel quotidiano confronto con le altre, anche più giovani di me, ricorrono costantemente frasi che mostrano la preoccupazione rispetto al come si viene viste e si viene raccontate dagli altre (e dalle altre).
I motivi per cui una donna rischia di essere giudicata negativamente in realtà sono quasi tutti gli stessi di 50 o 100 anni fa.
LA NOSTRA SESSUALITA’. Troppa o troppo poca. Al netto dell’avere apparentemente una maggiore libertà di praticare sesso quando lo facciamo subiamo comunque delle conseguenze di tipo sociale; la libertà sessuale non ha migliorato le cose perché pensando a me stessa e sentendo parlare le altre in relazione ai rapporti eterosessuali non mi sembra che una maggiore libertà si sia tradotta in un maggiore nostro piacere. Ho l’impressione che oggi ci sentiamo in dovere di vestire i panni delle donne emancipate ed empowered che sono soddisfatte di quanto fanno a letto, essere kinky è un vanto che possiamo sfoggiare davanti agli uomini per dimostrare che non siamo delle frigide bigotte come le nostre madri o le nostre nonne. Non è un caso che abbiano avuto molta fortuna libri come La zoccola etica o la rivendicazione in chiave positiva della parola troia. Eppure le statistiche sugli orgasmi ci raccontano che molte donne eterosessuali e bisessuali in relazioni etero continuano a vivere senza orgasmi o comunque costrette a rapporti penetrativi col pene semplicemente perché il rapporto completo è quello del pene in vagina o a non riuscire ad ottenere un rapporto sessuale eterosessuale secondo le loro aspettative rispetto a come quei rapporti avvengono in termini sia di tempo del rapporto, di pratiche a partire proprio dalla fase iniziale (cioè il modo in cui poi si arriva a fare sesso).
Sempre sulla parola parola tr*ia vorrei aggiungere che la sua rivendicazione in chiave positiva non mi sembra che abbia cambiato di un millimetro il fatto che venga ancora utilizzata con successo per rovinare la reputazione di una ragazza/donna e consentire agli uomini di avere accesso al suo corpo come se fosse un oggetto sess*ale.
IL NOSTRO TEMPERAMENTO. Quando una donna non è accogliente, accomodante, tendenzialmente silenziosa, senza eccessi, remissiva, misurata nei modi, sorridente, composta, disposta a mettere in dubbio quello che sta dicendo proprio mentre parla e che anzi se non sottolinea sempre la possibilità che si stia sbagliando scatta subito il giudizio (acida, aggressiva, karen, scassamaroni). Al netto di tutti i termini che abbiamo cercato di introdurre nel nostro linguaggio comune, a partire dal concetto di bossy, continuo ad ascoltare racconti di donne e giovani donne che si sentono inadeguate, sbagliate, fuori posto, rimesse al loro posto. Più che un soffitto di cristallo mi sembra che le donne, stando ai loro racconti, siano costrette dentro una muta di latex che non riescono a sfilarsi e che le porta ad agire e parlare dubitando costantemente di loro stesse.
In questo quadro è indicativo il ruolo degli uomini: beneficiano di tutto questo senza dover fare nulla perché il lavoro è stato fatto durante l’infanzia e l’adolescenza. Inoltre gli uomini sono perfettamente consapevoli che i parametri con cui viene giudicata una donna non sono gli stessi utilizzati per loro. Gli uomini al massimo possono piegarci con le buone lodandoci soprattutto a discapito delle altre (quindi suggerendoci che essere una pick me girl è cosa buona e giusta) o con le cattive, spesso irridendoci, ridicolizzandoci, prendendoci in giro o sminuendoci.
Lo sguardo morale maschile è quello che nella nostra educazione è stato portato avanti, in molti casi, proprio dalle nostre madri nel silenzio controllante dei nostri padri e comunque sotto lo sguardo della morale pubblica, che è la morale maschile.
E’ in casa che abbiamo appreso che i nostri fratelli potevano avere più libertà, sbagliare di più, comportarsi in modo peggiore, salire in cattedra e farsi ascoltare “perché maschi” mentre noi imparavamo ad avere meno libertà, ad essere più silenziose e farci carico dei compiti di cura in misura maggiore.
Il silenzio dei padri, il loro essere defilati nell’educazione quotidiana, salvo poi apparire quando è necessario esercitare l’autorità, è esattamente l’emblema di uno dei pilastri del patriarcato: hanno costruito un sistema in cui il lavoro sporco lo si lascia alle oppresse, dopo averle allevate a ritenere giusta l’oppressione e soprattutto a non riconoscere l’oppressione come tale, che a loro volta mettono al mondo delle bambine che vengono educate a fare altrettanto.
Nel corso della mia vita i giudizi peggiori li ho ricevuti proprio da bambine e ragazze che non si accorgevano di star facendo il lavoro sporco per i maschi e che erano forse convinte, a torto, che questo avrebbe reso le loro vite migliori perché si sentivano, forse, gratificate e tranquillizzate dal fatto di essere delle “brave ragazze”.
La donna giudicante riceve lo stigma della società: la donna può ricevere il giudizio, ma non può essere giudicante. L’impressione è che la donna non possa essere giudicante solo quando si affranca dai parametri maschili di giudizio e impone la sua autonomia di pensiero. Banalmente una donna che dà della troia alle altre donne e che giudica le altre in modo spietato non è ritenuta giudicante, anzi magari coincide proprio con la brava ragazza che dalla sua retta via può infierire sulle altre mentre lei è l’oggetto puro e incontaminato che si concede sessualmente agli uomini col contagocce. Ma anche quella che si autodefinisce troia e chiama troie le altre non è affatto un problema, anzi è la nuova “brava ragazza” che ha fatto del suo non essere brava ragazza un vanto e che garantisce agli uomini un accesso ampio al corpo delle donne. In entrambi i casi i parametri su cui emettiamo giudizi su noi stesse e sulle altre sono sempre maschili: il primo risponde al tradizionale dominio maschile, il secondo alimenta il nuovo dominio maschile.
Eppure la donna giudicante è la paura più diffusa fra le donne e il maggiore successo del dominio maschile. Gli uomini danno i parametri di giudizio per valutare le donne e poi lasciano che siano le donne stesse a farli veicolare: lo fanno le madri , le zie, le amiche, le cugine e anche le sorelle, le insegnanti. Il lavoro maggiore in termini di distruzione delle altre viene lasciato proprio “alle vittime” che mettono in atto un gioco al massacro per ricevere brandelli di approvazione maschile che è l’unica approvazione sociale che conta, a casa come fuori.
Il giudizio femminile fa paura anche all’interno del femminismo proprio perché siamo talmente consumate dal giudizio sociale che l’idea di riceverlo anche nel femminismo e di sentirci magari sbagliate anche fra sole donne, ci terrorizza.
Quando le bambine, le ragazze e le donne riusciranno a spostare il giudizio da loro stesse agli uomini, senza sentirsi in colpa e senza pensare di star facendo qualcosa di male, di star diventando odiatrici di uomini, di essere esagerate o ideologiche perché “anche le donne…”, forse allora qualcosa potrà cambiare davvero nella vita quotidiana di tutte. A partire dal come viviamo il ricevere osservazioni dalle altre donne, perché avremmo la certezza che è il nostro bene che ci viene indicato e non un tentativo di segarci le gambe o buttarci sotto a un treno per avere maggiore spazio e approvazione sociale.
In tal senso la pratica dell’autocoscienza, portata avanti con costanza, è l’unico strumento di liberazione personale e collettivo proprio per la mancanza di giudizio, ma anche come luogo in cui le altre possono farci domande senza farci sentire giudicate e in cui noi possiamo fare domande alle altre senza emettere giudizi.
L’autocoscienza è un lavoro molto lungo e non potrebbe essere altrimenti, perché millenni di dominio maschile appreso nelle case, nelle scuole, nella cultura e nella politica non possono essere spazzati via da slogan, formule facili da apprendere ed esercizi semplici da applicare ogni giorno.
Quanto a me, oggi finalmente vivo libera dal senso di colpa e di inadeguatezza: parlo quando voglio; non mi sento obbligata a relazionarmi anche con gli uomini per paura di essere vista come una odiatrice di uomini ma lo faccio solo quando ho davvero desiderio di vedere un amico o trovarmi in situazioni in cui c’è della presenza maschile; non sono terrorizzata (come lo ero una volta) dall’ emettere pubblicamente giudizi sugli uomini in modo netto e senza tentennamenti.
Non ho ancora risolto, invece, la profonda tristezza che proviene dal rendermi conto che le altre donne mi vedano come la stramba, l’esagerata, la mezza lesbica, la sbagliata che corre il “pericoloso rischio” di rimanere da sola senza amici e relazioni. Insomma quello per cui soffro è che invece di essere un esempio, il mio percorso femminista mi renda in tanti casi la personificazione delle paure delle altre. Soffro perché questo percorso vorrei farlo con altre, con TANTE altre.